mercoledì 29 febbraio 2012

Darkly Dreaming Dexter


Torno a parlare di Dexter. Ho letto il romanzo da cui è stata tratta la serie televisiva. S'intitola La mano sinistra di Dio (in originale Darkly Dreaming Dexter) e devo dire che alla fine non è che mi sia piaciuto molto. Ho cercato di capire perché e alla fine sono giunto ad una conclusione.
Il primo motivo è che nonostante le molte differenze tra le storie il personaggio di Dexter lo avevo già conosciuto attraverso la serie televisiva. L'impatto con la sua mente criminale distorta e "normale" lo avevo già avuto. Leggendo il libro però mi aspettavo di trovare una profondità maggiore, una scrittura abile che mi avesse maggiormente affascinato, invece nulla. E qui veniamo al secondo motivo, la scrittura di Jeff Lindsay. Il suo stile non mi è piaciuto. Il suo modo di narrare la storia non mi ha convinto. E' interessante il racconto in prima persona perché riesce a far emergere tutti i lati oscuri del personaggio ma la storia mi ha dato l'impressione di essere raccontata in modo troppo sbrigativo. Scorre via ed è poco incisiva.
La nota positiva del romanzo è il personaggio di Dexter. Aver pensato a questo serial killer è stata un'intuizione geniale. La descrizione della sua ricerca di normalità, il suo cercare di apparire rispettabile e anonimo. Un serial killer che non si preoccupa delle sue pulsioni, anzi cerca di educarle ma non le reprime. Putroppo anche in questo caso penso che nelle mani degli sceneggiatori della serie il personaggio sia stato valorizzato anche se un po' addolcito. Lindsay infatti lo rende ancora più cinico, privo di sentimenti ed emozioni. A Jeff Lindsay rimane il merito di aver creato un personaggio letterario straordinario ma non basta, uno scrittore migliore avrebbe potuto creare un capolavoro.

martedì 28 febbraio 2012

Un indovino mi disse di Tiziano Terzani


Quando leggo un libro la sensazione che mi piace provare di più è la compagnia. Un libro che ti accompagna ogni giorno, che non vedi l'ora di aprire, un compagno di viaggio nella quotidianità. Un libro che quando è terminato ti manca e tardi a riporlo nella libreria.
Un indovino mi disse di Tiziano Terzani è stato questo per me. Un bellissimo libro che giorno dopo giorno ti fa compagnia mentre lo leggi, una sensazione rara. Un libro che non stanca mai, dove ogni momento di lettura è quello buono.
E' difficile sintetizzare il racconto di Terzani, un racconti di viaggio, alla ricerca della residua spiritualità. Il suo viaggio si svolge in Asia con il pretesto di non viaggiare in aereo per un anno. L'Asia è l'ultimo baluardo della spiritualità, in Occidente l'abbiamo persa. Non è un libro religioso. Terzani non è alla ricerca di se stesso, nonostante alla fine porta "qualcosa" in valigia nel suo ritorno a casa. E' un racconto in un certo senso profetico. Nel 1993 Terzani scopre in Asia quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. C'è il riflesso della nostra contemporaneità in questo racconto di viaggio, una contemporaneità tra materialismo e fondamentalismo religioso.
E' un viaggio affascinante dove lo sguardo di Terzani non è mai moralista, il giornalista non vuole imporsi, non vuole convincere il lettore. Lui osserva con il suo sguardo attento, critico e sarcastico. La sua visione è spesso legata alle sensazioni, ai sentimenti e poco alla ragione. Ma dopotutto l'uomo che emerge da questo racconto è questo, un uomo razionale alla ricerca della spiritualità. La spiritualià appartiene a tutti e ognuno trova da solo la propria via.
Nel suo viaggio Terzani incontra moltissimi indovini, uno per ogni luogo visitato. E' quello il suo oggetto di ricerca, l'oggetto del suo reportage. Il suo intento è quello di scoprire perché la gente li cerca, li consulta. Lo sguardo di Terzani sul mondo degli indovini è al di fuori, gioca con loro, li mette alla prova e non li prende mai troppo sul serio. Alcuni dei dialoghi con gli indovini sono molto divertenti perché Terzani svela i meccanismi delle loro profezie. L'aspetto affascinante di queste profezie è che sono legate alla società nella quale vengono fatte.


Il racconto di Terzani è letteratura di viaggio. Pagine bellissime che permettono di scoprire l'Asia meno visibile, quella meno turistica. Un viaggio alla scoperta dei volti e delle persone, delle emozioni dell'avventura. Un racconto di tradizioni perdute e mantenute, di leggende, di profezie e di amare realtà. Le pagine in cui racconta il suo viaggio in nave sono indimenticabili, piene di pace e gusto per la lentezza della vita.
Una Singapore che si è venduta al capitale: "Singapore è la Betlemme della nuova grande religione: la religione dei consumi, del benessere materiale, del turismo di massa." Il Laos, il racconto più affascinante, un paese incontimato e spirituale. Il racconto della comunità mussumulmana di Al Arqam è duro, aspro ma anche affascinante: una comunità che rifiuta il consumo che cerca un'economia islamica, integralisti e hippies. Il ritorno in Cina di Terzani è la delusione di trovare un paese perduto, un paese che ha tradito se stesso.
Quello con Terzani è un viaggio da fare leggendo le sue pagine, i suoi racconti. Una scrittura semplice, scorrevole e coinvolgente. Un punto di vista che ho apprezzato moltissimo. Questo libro e il suo autore sono una scoperta inaspettata. Sono sicuro che replicherò con altri suoi libri, già ne ho individuati alcuni nelle mie corde. Questo libro è stato inoltre la scoperta di un genere che non avevo molto considerato finora, la letteratura di viaggio.

lunedì 27 febbraio 2012

Shining vs Shining


Partiamo dal romanzo. La lettura di Shining è veramente godibile e come in quasi tutti i libri di Stephen King prima o poi il racconto ti cattura e non riesci a staccarti dalla pagina. L'azione a volte è serrata e le trovate orrorifiche sono pienamente nel genere. Tra i libri di King questo è indubbiamente tra i migliori perché si respira un terrore casalingo che mette i brividi. La figura di Danny, poi, è riuscitissima. Disegnare un personaggio così complesso che è solo un bambino di 5 anni è uno degli elementi di forza di questo libro.
Ero uscito dall'univero di King da parecchi anni, quindi, sono affiorati maggiormente i difetti del suo stile di scrittura. In alcuni casi infatti il libro è inutilmente prolisso, ricco di flashback che se è vero che danno un senso alla storia, a volte sono troppo lunghi e insistiti. Sopratutto nell'analisi del personaggio di Jack il romanzo è ripetitivo, ribadendo più volte gli stessi concetti.
Mentre leggevo il romanzo di Stephen King mi ero promesso di non fare paragoni con il film di Kubrick che adoro e che trovo eccezionale. Purtroppo mi è riuscito difficile ma il risultato del confronto è stato una sorpresa.
Ho sempre pensato che confrontare i film e i romanzi fosse un esercizio inutile. Utilizzano linguaggi differenti e hanno differenti modi di creare emozioni. L'unico commento che si può fare è se sia piaciuto di più l'uno o l'altro. Un film può essere un buon film a prescindere dal romanzo da cui è tratto e viceversa.
Nel caso delle opere di King e Kubrick l'esercizio di confronto è un puro gioco poiché i racconti sono molto differenti tra loro. Lo sviluppo del racconto, il taglio dato alla storia e la costruzione dei personaggi sono differenti e non solo per l'ovvia diversità del linguaggio ma sopratutto perché traggono la loro forza da elementi differenti.
Un po' in ordine sparso alcune differenze. Nel romanzo di King il vero protagonista è l'Overlook, essere vivente, terrificante. E' il soprannaturale dell'albergo e le sue presenze che governano l'azione e l'animo dei personaggi. C'è inoltre nell'opera di King una maggiore evidenziazione del rapporto stretto tra padre e figlio che ha delle ricadute non trascurabili sulla storia. In Kubrick tutto questo non è assente ma è trascurabile ai fini di quello che si racconta. Sono altri gli elementi che emergono, sopratutto psicologici, a partire dalla struttura a labirinto, vera geniale intuizione del film. Dalla lettura ci si rende conto che Kubrick ha tratto pochi elementi dal romanzo. Li ha presi e li ha ricomposti a modo suo, per dare al racconto un senso e un respiro completamente differenti.
Un'altra sostanziale differenza è nel finale. Il libro di King ha una vera e propria conclusione. C'è un vero finale. L'Overlook ha una fine. Nel film di Kubrick si sottolinea l'aspetto ciclico. La storia dell'Overlook si riavvolge su stessa, come il labirinto appunto.
Comprendo pienamente gli amanti del romanzo che hanno trovato nel film di Kubrick qualcosa di completamente differente. Rimane ben poco e chi si aspettava una visualizzazione del libro di King rimane deluso. Kubrick costruisce il suo film e il romanzo diventa solo il soggetto di partenza. Personalmente continuo a preferire il film perché ritengo che le novità introdotte da Kubrick rispetto al romanzo danno al racconto uno spessore notevole.

domenica 26 febbraio 2012

Gli scarafaggi non hanno re di Daniel Evan Weiss


Mia madre non si è mai fidata degli armadietti da cucina. Fin dalla fondazione della colonia era tradizione porre l'ooteca - l'involucro che racchiude le uova - nei pensili, in modo che i neonati si trovassero nei pressi delle principali riserve alimentari. Ma, gravida della sua figliolanza di trentotto nascituri, la mia meravigliosa genitrice si trascinò per tutto il corridoio perché potessimo fare il nostro debutto ai piedi della libreria.

L'incipit de Gli scarafaggi non hanno re di Daniel Evan Weiss fa subito capire che gli scarafaggi con cui abbiamo a che fare in questo romanzo sono fuori dalla norma, in particolare il protagonista. Numeri, la blatta protagonista del romanzo è acuto, intelligente e con tanta voglia di fare. Il suo obiettivo nella storia è salvare la sua colonia, garantire loro la sopravvivenza in una casa che ormai combatte gli scarafaggi con tutte le armi e che sopratutto diminuisce le loro possibilità fare scorte alimentari.
Cambiare la prospettiva con cui guardiamo il mondo e in particolare con cui guardiamo un appartamento e la vita che si svolge al suo interno. Il genere umano visto da occhi estranei, esterni. La vita di un avvocato ebreo alle prese con i suoi problemi quotidiani e con i problemi d'igiene. Assumere il punto di vista delle blatte, esseri viventi non famosi per la loro capacità d'ispirare simpatia a noi umani. Sono queste le premesse dalle quali la storia prende vita. Idee interessanti e ricche di possibilità narrative.
Il primo capitolo nel quale viene presentata la colonia di scarafaggi che abita nella libreria è straordinaria. Blatte che si nutrono della colla dei libri e che acquisiscono in questo modo la conoscenza dei libri stessi. Dialoghi brillanti e buon ritmo sono gli ingredienti che si perdono a mio parere nei capitoli successivi. Ho trovato, infatti, particolarmente noiosi i capitoli centrali che pur ricchi d'idee si perdono troppo in descrizioni minuziose delle attività di guerriglia degli scarafaggi. Ho trovato interessanti invece le analisi psico-socio-culturali che vengono fatte sul genere umano e in particolare sull'abitante dell'appartamento e sulle altre specie, come nel passo che segue:

"Non sarà il caso di mettere via il cibo da qualche parte?" "Quello lo fanno le formiche. Sono così ossesionate dall'idea di mettersi al sicuro dai giorni brutti che non ne hanno mai uno bello. Quello non è vivere."

Il libro recupera lo spirito della parte iniziale nei capitoli finali dove un dramma surreale e grottesco prende il sopravvento con un colpo di scena sorprendente ma tremendamente agghiacciante.
Un romanzo di alti e bassi che è scritto con stile e gusto per il paradosso. Il compito di cambiare il punto di vista sul mondo (consigliato nei libri di scrittura creativa) riesce bene ma non mi ha entusiasmato del tutto. Devo ammettere però che durante la lettura si ha la sensazione di essere osservati e si ha il timore di scoprire una colonia di blatte nel proprio appartamento. Da questo punto di vista il romanzo invita indirettamente a mantenere pulita la casa.

sabato 25 febbraio 2012

L'oscura immensità della morte di Massimo Carlotto


Massimo Carlotto è una continua scoperta. I suoi romanzi emozionano e sono scritti con uno stile semplice, secco e coinvolgente. Negli altri romanzi che avevo letto (Il fuggiasco e Le irregolari) c'era un misto di dramma e ironia. Ne L'oscura immensità della morte il colore dominante è il nero. C'è il dramma di un uomo che perde moglie e figlio a causa di una rapina finita in tragedia. C'è poi la storia parallela dell'uomo che li ha uccisi, incarcerato e prossimo alla morte a causa di un cancro.
Il libro racconta una storia che sembra prendere spunto dai fatti cronaca e costruisce due personalità, due storie che s'intrecciano. Un uomo libero (ma solo fisicamente) e un uomo in carcere. Narra di due destini senza via d'uscita, senza luce. Il suo stile è secco e arriva in profondità. Ti colpiscono alcune frasi, alcune parole, alcune descrizioni per la loro crudezza.
Carlotto racconta due storie di uomini persi senza mai scadere nel patetico, nonostante il rischio, viste le premesse, fosse grosso.
Non so perché ma il mio pensiero va a Io Uccido di Giorgio Faletti. Le storie sono differenti ma le premesse nere della storia sono presenti in entrambi i romanzi, da una parte abbiamo un serial killer e un poliziotto, dall'altra una vittima e un carneficie. La strada intrapesa è completamente diversa e a mio parere evidenzia le differenze tra i due autori. Nel caso di Faletti c'è la scelta banale di raccontare una storia con toni sensazionali, costruita su colpi di scena. Uno stile e un racconto privi di profondità e di costruzione dei personaggi. I protagonisti di Faletti non hanno anima, si muovono nelle trame del racconto che va avanti veloce senza mai fermarsi. I protagonisti di Carlotto si arricchiscono ad ogni riga, ad ogni parola. Alla fine del romanzo si ha la sensazione di averli compresi, conosciuti. Sono personaggi complessi come le persone reali, non ci sono semplificazioni narrative e nonostante questo non annoia il racconto di Carlotto, anzi è scorrevole e avvincente. Il sapore del romanzo è decisamente noir, quel noir classico dove erano raccontate vite senza scampo, dove il futuro anche se c'era non aveva motivo di esistere.

venerdì 24 febbraio 2012

Chiedi alla polvere di John Fante


Chiedete alla polvere della strada! Chiedete alle iucche che si ergono solitarie ai margini del Mojave. Chiedete loro di Camilla Lopez, e sentirete sussurrarne il nome.
Dal prologo.

Il romanzo di John Fante è un romanzo americano. È americano perché parla di un uomo che diventa scrittore con la sua forza di volontà emergendo dalla polvere della sua condizione sociale. È americano perché il protagonista diventa scrittore per guadagnare denaro e riscattarsi. L'ambientazione è americana: c’è la California non brillante di una Los Angeles di periferia.
È un romanzo narcisista dove l'autore inventa un alter ego per parlare di se stesso stesso e della sua vita. È un romanzo dove la storia narrata e la storia vissuta s’intrecciano. La vita diventa racconto nelle pagine del libro e l’autore non lo nasconde, non cela questo suo intento.
Chiedi alla polvere è una storia d’amore come piacciono a me. Storie d’amore tormentate ma che non riescono ad essere struggenti, non melensi e a loro modo intense. Storie dove la persona amata non diventa l’idolo del protagonista, ma che rende il protagonista consapevole di se stesso. Una storia d’amore non corrisposto, dolorosa e amara. Le pagine che descrivono il primo incontro tra Camilla e Arturo Bandini sono bellissime. L’autore ci mette un certo distacco, non la vuole ma ne è irrimediabilmente attratto. C'è un gioco tra i due che si respingono a vicenda. Non c’è il fuoco della passione in questa storia, c’è un sottile amore celebrale.
C’è uno stile straordinario dietro tutto questo. John Fante ti incatena alle sue pagine. Scorri tra le righe la sua vita, quella di Arturo Bandini, quella di Camilla e quella di Vera. Non riesci a uscirne neanche quando il libro finisce. È coinvolgente lo stile di questo romanzo, tra cambi di tono e di registro, storie nella storia. Non è un romanzo stilisticamente compatto ed è proprio questa la sua caratteristica più affascinante. Lo scrittore scrive con la testa ma anche con il cuore e con lo stomaco. Nulla è costruito o almeno non sembra tale.
Leggendo questo genere di romanzi, ti rendi conto del motivo per il quale diventano classici. Sono perle barocche: imperfette, affascinanti e che ti rubano il cuore. Alla fine della lettura del romanzo ho letto le brevi note biografiche dell'introduzione e mi sono reso conto di quanto a volte i classici della letteratura hanno una sto

giovedì 23 febbraio 2012

Il sole dei morenti di Jean Claude Izzo


Ho sempre avuto curiosità nei confronti della vita dei clochard. Una volta durante la presentazione di un libro rimasi affascinato dall'intervento di uno strano tipo, un clochard, che intervenne rielaborando senza nessun apparente filo logico la discussione che si era svolta. Il suo modo di parlare era sicuro e deciso, non aveva dubbi nella voce. La sua esposizione era chiara nell'intonazione ma completamente illogica e senza nessun senso.
Mi sono imbattuto in un paio di romanzi che a loro modo parlavano di vagabondi, persone che per scelta o per caso si ritrovano a vivere in strada, senza fissa dimora. Anche l'ultimo libro che ho letto ha come protagonista un clochard. E' il romanzo francese "Il sole dei morenti" di Jean-Claude Izzo. Il libro è molto bello anche se nella prima parte non era riuscito a rapirmi. Ero come indifferente al racconto, non riuscivo a vivere la storia. Nella seconda parte quando la situazione del protagonista diventa più drammatica il libro mi ha rapito e le parole dello scrittore hanno cominciato ad emozionarmi.
Nelle due parti in cui è composto il romanzo si nota la differenza di atmosfera, di sensazioni. La prima parte è più "terrena", racconta la debolezza di un uomo che non riesce a reagire, un uomo che soffre perché ha perso la dignità, il lavoro, l'amore, gli affetti e tutto quello che lui riteneva importante nella vita. La prima parte si chiude con un evento drammatico e c'è la svolta. Nella seconda parte, infatti, il protagonista vive sempre per la strada ma è come se non vivesse più nel nostro mondo. La sua mente è in una dimensione parallela dove solo in alcuni momenti la drammaticità della sua vita lo colpisce.
Il romanzo è di un romanticismo a tratti struggente, mai melenso. Non c'è una vera storia d'amore ma il protagonista vive dei suoi affetti, mancati o perduti. E' struggente la sua ricerca dell'amore.
Un episodio della storia mi ha colpito in modo particolare. Il protagonista ad un certo punto della storia cambia città e si stanca di chiedere le elemosina in modo convenzionale. Decide di recuperare per la strada e nei cassonetti diversi oggetti e regalarli a chiunque gli possa dare qualche moneta. Stende il suo lenzuolo e dispone gli oggetti tra i quali il benefattore può scegliere la sua ricompensa per i soldi dati.

mercoledì 22 febbraio 2012

Da dove sto chiamando di Raymond Carver


Leggere i racconti è come rubare frammenti di storie. Il bello dei racconti è il loro essere in un certo senso incompleti. Ti possono dare forti emozioni e forti delusioni che si esauriscono in poche pagine. Nella prefazione di Da dove sto chiamando di Raymond Carver ho trovato due bellissime citazioni che parlano della forma breve del raccontare.

"Non c'è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di uno punto messo al punto giusto." Isaac Babel.

Il racconto è "qualcosa di intravisto con la coda dell'occhio, di sfuggita"V.S. Pritchett

Quest'ultima definizione si sposa bene con i racconti di Carver. Nella raccolta Da dove sto chiamando c'è come un mosaico di storie, frammenti di vite. E' come vedere il mondo dall'alto, scenedere in una città a caso e rubare dei momenti di vita di alcune persone.
Ogni suo racconto ti regala emozioni diverse ma in quasi tutti c'è come una suspense sottointesa. E' come se nel corso del racconto dovesse accadere qualche evento determinante ma alla fine non succede nulla. Tutto si risolve nel raccontare. E' l'atto del racconto che è importante, non è essenziale che ci sia un inizio e una fine nella storia ma è importante quello che viene raccontato in quel momento. La suspense è creata dal solo raccontare, anche se si parla di vite normali. Un racconto che in alcuni casi viene fatto per sconfiggere la noia e la monotonia di alcune vite, per esorcizzare drammi, delusioni, rancori. (come in Che cosa si combina a San Francisco, Grasso o in Che ci sarà mai in alaska?).
Poi c'è lo stile asciutto e lineare di Carver che rende i racconti di una profondità disarmante, anche se il racconto è semplice e senza troppa introspezione. Ti trovi intrappolato nelle trame del suo racconto e non capisci come ci sei finito dentro.
Oltre alla senzazione comune un po' a tutti i racconto ci sono stati dei racconti che mi sono piaciuti più di altri.
La moglie dello studente è struggente. Una ragazza soffre d'insonnia e non ne comprende il perché. C'è angonscia nella vita della ragazza, ma non emerge chiaramente, è nascosta o rimossa. Il suo corpo però se ne accorge e lo comunica attraverso l'insonnia.
Che ci sarà mai in Alaska? racconta di una serata tra due coppie di amici, dove si mangia e si fuma erba. Finisce il racconto e hai il cuore in gola senza sapere il perché. Nel racconto tra le righe emerge il rimosso, il rancore, quello che si nasconde ma che è lì in agguato, in attesa di uscire. Ma come sempre non succede nulla.
Cattedrale è difficile da raccontareQui lo stile di Carver è eccezionale. La delicatezza e la scelta delle parole ti fa emozionare. La semplicità del racconto crea la poesia. E' un racconto da leggere.

"Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l'ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, "creature di sangue caldo e nervi", come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita." Dalla prefazione di Raymond Carver

martedì 21 febbraio 2012

Il fuggiasco: cronaca, libro e film


La storia di Massimo Carlotto è allucinante. Un uomo accusato di un omicidio non commesso. Un uomo colpevole solo di aver testimoniato alla polizia il ritrovamento del cadavere di una ragazza. Accusato senza nessuna prova, un capro espiatorio che fa parte di Lotta Continua e in quegli anni facilmente accusabile.
Massimo Carlotto ora è uno scrittore di romanzi che ha scritto nel 1995 un romanzo ispirato alla sua esperienza di condannato innocente costretto alla fuga. Il racconto della sua esperienza di latitante, i modi per non farsi scoprire, le amicizie nate. Il romanzo s'intitola Il fuggiasco e ne è stato tratto anche un film.
Confrontare il film e il romanzo è come sempre un'operazione abbastanza inutile e ingiusta nei confronti del film, poiché sono due linguaggi differenti.
Il romanzo è molto bello e coinvolgente. La scrittura di Carlotto, il suo stile, il suo umorismo riescono a rendere la sua esperienza e i suoi stati d'animo in modo straordinario. Il racconto alterna dramma, malinconia e racconti divertenti. La resa della vita del "latitante per caso" (espressione dello stesso autore) è eccezionale.
Il film è ben fatto, scritto dallo stesso Carlotto insieme al regista Andrea Manni. Avrei sicuramente fatto un altro tipo di film, ma alla fine il risultato non è male. Il film ha un buon ritmo, una bella colonna sonora e il racconto non è una fotocopia del libro. Apprezzo molto quest'ultimo particolare perché non amo i film che sono la ripetizione del libro, mi piace che al cinema il linguaggio scritto venga tradotto. Il film rispetto al romanzo è più cupo e disperato, mancano i momenti di distensione presenti nel romanzo. Il film non è raccontato in prima persona come il romanzo, e in alcuni passaggi questo crea un po' di confusioni nel racconto se non si è letto il libro. Nel film però vengono esplicitati alcuni passaggi come la teoria del complotto ai danni del protagonista.
La sensazione che si prova alla fine del libro e del film è leggermente diversa. Nel libro c'è una sorta di liberazione mentre nel film c'è una specie di malinconia. Quello che rimane in entrambi è il dramma che Massimo Carlotto ha vissuto a causa di una giustizia incapace.

lunedì 20 febbraio 2012

Overlooking Kubrick


Overlooking Kubrick è una raccolta di saggi, quindi come accade in questi casi, non ho provato il piacere di leggerlo da cima a fondo, c'è sempre qualcosa che non piace, qualcosa che non è nelle proprie corde. Il libro è il frutto di una serie di convegni svoltisi in Italia, una sorta di "antologia critica kubrickiana" come la definisce il curatore della raccolta.
Il testo si struttura su alcuni grandi temi (la storia, la messa in scena, lo sguardo, il montaggio, la psiche), avvalendosi degli interventi di "veterani" del cinema di Kubrick come Sandro Bernardi o Pierre Sorlin, e di altri analisti del testo filmico come Paolo Bertetto, Mario Sesti o Roberto De Gaetano.
Tra i grandi temi affrontati quelli che ho preferito sono stati quelli più strettamente cinematografici come la messa in scena e il montaggio. Anche gli altri saggi sono interessanti ma quando leggo di cinema preferisco l'analisi legata al film, alle sue inquadrature, al suo specifico linguaggio. Dopotutto parlare di un regista è parlare di quello che ha filmato e non di quello che avrebbe voluto fare, perché è quello il linguaggio che sceglie per comunicare.
I saggi che ho preferito sono:

- Mario Sesti, L'automa ribelle: Kubrick e gli attori
Sandro Bernardi, Kubrick e Lolita "per sempre" (dedicato a Kubrick e i generi, a partire da Lolita)
- David Ballerini, La natura selvaggia dello sguardo (dedicato al racconto del mito attraverso l'analisi di Shining)
- Marcello Walter Bruno, L'osso e l'astronave (dedicato al montaggio nel cinema di Kubrick)
- Renato Tomasino, Lo sguardo di Dio (sui movimenti di macchina, il campo-controcampo e l'uso della soggettiva).

Nei saggi che ho letto con più piacere ci sarebbero moltissime citazioni da fare ma estrapolarle dal contesto le renderebbe poco interessanti. Tra le tante c'è una dichiarazione dello stesso Kubrick che parla di attori e forma cinematografica:
"Si tratta di stabilire un compromesso fra lo stile cinematografico che si vuole ottenere e la recitazione degli attori cui bisogna venire incontro: conviene sempre scegliere la recitazione. Charlie Chaplin ne è l'esempio perfetto. Non possiede uno stile cinematografico e la materia da lui filmata è perfetta al cento per cento. Ed Ejzenstejn è esattamente il contrario; cento per cento di forma e una materia poverissima..." ("Positif", 1969).

domenica 19 febbraio 2012

C'era una volta


C'era una volta un lettore che aveva cominciato tardi ad amare i libri ma quando li scopri' non li abbandono' più nonostante intorno a se' non ne sentiva parlare un gran bene e tutti li consideravano noiosi. Il lettore quindi decise di leggere e leggere e leggere come se dovesse mettersi al passo con un immaginario quanto invisibile filo che lo legava alla perfezione, il lettore perfetto.
Quel lettore pero' non perse mai di vista il fine ultimo della sua lettura, quello che se lo scopri non ti permette di uscire di casa senza un libro o che se finisci un libro e non puoi cominciarne un altro...be' e' un problema. Quel fine ultimo e' il  piacere. Il piacere e' leggere per godere delle parole, delle storie e dei personaggi che s'incontrano. Leggere e' il piacere di perdersi e di sentirsi abbandonato quando un romanzo finisce. 
Un giorno il lettore incontra un blog e decise di adottarlo ma non sapeva che nome dargli, in fondo lui era semplicemente un lettore. All'improvviso il titolo di un libro che il lettore non aveva neanche letto lo ispiro' e il blog venne battezzato semplicemente senza nome. 
Ora quel lettore scrive il suo primo post per cercare di presentarsi a chi avrà il piacere di leggere le sue opinioni a volte sconnesse sui libri che incontrerà e sulla lettura, così tanto per scrivere.